Questo lavoro di Andrea Pacanowski, adesso coagulato in una mostra di grande interesse artistico e culturale, parte da un punto di vista sui generis, considerando la formazione tecnica e la biografia dell’artista. Sino ad oggi, infatti, Pacanowski nel suo percorso artistico aveva seguito e inseguito – sulle tracce della sua antica professione di fotografo di moda – gli attimi e gli istanti di profili individuali, o di frammenti di paesaggio “abitabili” da un Soggetto slegato da particolari reti di socialità. Nel caso di All’infuori di me, il salto metodologico e, si può dire, obiettivo del suo interesse ha prodotto un risultato che può e deve interessare tanto il critico d’arte o lo specialista di fotografia, quanto (ed è questa la ragione del mio contributo) lo studioso di scienze sociali o l’osservatore dei “mondi vitali” della nostra contemporaneità.
E in questi mondi la religione, al di là di retoriche consolidate e piuttosto sonnacchiose, occupa ancora uno spazio simbolico e semantico di enorme rilievo. Se non altro come manifestazione sovrastrutturale – o, avrebbe detto David Easton, superstrutturale – delle dinamiche profonde che ancora definiscono i rapporti dell’uomo con le grandi domande dell’esistenza. Pacanowski si inserisce in questo dominio con un’ottica peculiare, utilizzando l’“universale situato” (la massa) per definire il “singolare non situato” (il soggetto credente nella partecipazione a un rituale religioso). L’artista dunque abbandona il singolo per affacciarsi a un nuovo piano di lavoro: la massa, la folla, la moltitudine convocata. In sé, ovviamente, questa scelta non rappresenta una novità: è il modo e la tecnica della “riflessione per immagini”, vedremo, che assicura a Pacanowski un punto di vista decisamente innovativo.
Ma torniamo alla relazione tra folla e religione. Il rapporto tra le masse di fedeli e la religione come liturgia collettiva o, ancora, tra i diversi aspetti della dimensione “pubblica” della religione, è un oggetto di riflessione su cui si sono cimentate, nel corso del tempo, il pensiero teologico, le scienze sociali, lo stesso racconto giornalistico. La capacità delle grandi religioni di radunare grandi quantità di persone in un unico spazio, “chiamando a sé” eserciti di fedeli, e dunque la forza di creare un evento che riunisce il momento religioso e la sua condivisione è – come noto – sia simbolo del potere di “convocazione” della fede religiosa sia contrassegno della capacità di socializzare la fruizione di un evento e sacralizzare lo spazio dove l’evento stesso ha luogo.
Certamente gli eventi religiosi non sono gli unici fenomeni di aggregazione di massa: anche i comizi politici, i raduni musicali, tra gli altri, e persino le grandi convention aziendali sono esempi del potere di raccogliere un grande numero di persone per la celebrazione di un evento che, per sua stessa natura, ha bisogno della “massa” per dispiegarsi e completarsi. L’esperienza religiosa non si può vivere in una postura esclusivamente individuale, senza coinvolgimento degli altri, nonostante la propaganda contemporanea di una religiosità fai-da-te fondata su un puzzle di riferimenti teologici e metafisici liberamente assemblabile dal singolo e altrettanto liberamente dispiegabile in un rapporto “uno a uno” con la divinità.
Oltre che per il singolo, la relazione con il divino rafforza la coscienza comunitaria e rinsalda l’identità collettiva. Offre una riserva di senso e un punto di riferimento, magari critico, anche per chi si chiama fuori da quell’appartenenza comunitaria (è il noto caso italiano degli “atei devoti” e dell’idea della religione come sostrato culturale della storia italiana che abbraccia anche i non credenti). L’appartenenza alla comunità religiosa stimola, desta, sviluppa, determina, sostiene o frena il comportamento religioso del singolo.
A sua volta, questi, con l’autenticità del proprio comportamento religioso sostiene o rinnova la vita religiosa comunitaria, o, al contrario, concorre a degradarla con la sua indifferenza, estraneità od ostilità.
E qui veniamo al titolo della mostra, fecondo nel suo potenziale evocativo. Riprendendo e rielaborando una nota espressione evangelica, il rito collettivo è tutto ciò che risulta e risalta all’infuori di me, nello spazio che – per vocazione o per casualità – addensa i fedeli e ne fa, agli occhi dell’artista, un unico oggetto di osservazione. Gli eventi religiosi, però, possiedono una caratteristica che è sopravvissuta all’epoca della secolarizzazione: il “mistero” di un evento che si celebra non nell’hic et nunc dell’apparizione di una autorità, ma nell’evocazione liturgica dell’elemento divino, che rende il singolo partecipante, spettatore e attore del miracolo della fede. Il soggetto è posto “di fronte” al divino che si auto-mostra e si auto-comunica. Questo elemento segna una differenza decisiva, un indelebile marchio di alterità rispetto ad analoghi fenomeni aggregativi, e ci aiuta a comprendere perché alcuni sostengono che nel mondo contemporaneo è entrata in crisi l’esperienza religiosa ma non la religione come “fatto sociale” o ancora, riprendendo la nota definizione di Marcel Mauss, fatto sociale “totale”.
Il comportamento religioso personale è sempre socialmente caratterizzato e socialmente orientato. Questa attitudine extraindividuale oggi diventa, come si usa dire, una piattaforma cross-mediale che ramifica e moltiplica l’esperienza religiosa elementare su differenti superfici mediatiche, in cui i momenti di aggregazione collettiva (e tutto ciò che lì avviene in chiave di liturgia e rito) non sono più solo un’esperienza limitata ai partecipanti, ma si fanno immagini, video, file di memoria, materiali destinati a essere scomposti e ricomposti nell’universo mediatico globale.
Ma l’homo religiosus, rispetto a un lungo passato in cui la religione dominava e compenetrava lo spazio pubblico, e definiva anche i confini tra il momento del lavoro e il momento della festa, combatte una quotidiana battaglia per la visibilità, affronta una competizione aspra per non venire risucchiato nella “spirale del rumore” della mediatizzazione e del suo fortissimo potere di omologazione e dunque appiattimento dei fenomeni sociali.
L’homo religiosus, perciò, lotta per affermare la specificità, la distintività, la scandalosa eccezione del messaggio di – citiamo don Giussani – incontro di cui si fa portatore. In questa sfida, la qualità e il potere delle immagini, la maestosità delle cerimonie, l’aspetto aggregativo e fusionale delle masse, la festa collettiva sono delle risorse strategiche chiave che le grandi religioni monoteiste (in particolare il cristianesimo e l’islamismo) hanno a disposizione per marcare la loro capacità di differenziarsi dai nuovi culti à la carte e per affermare la propria potenza nei numeri giganteschi delle loro schiere di fedeli. Nella continua produzione e riproduzione mediatica, le immagini delle folle e il messaggio (a volte implicito e silenzioso, a volte esplicito e talvolta conflittuale) che contiene la loro stessa apparizione, sono monete preziose in ciò che abbiamo definito competizione per la visibilità, presupposto irrinunciabile per l’allargamento della propria massa di fedeli.
La folla e la religione. Ecco. Esattamente in questo punto Andrea Pacanowski ha deciso di piantare il cavalletto della sua macchina fotografica e preparare le tavolozze che costituiscono, metodologicamente, il quid novi della sua produzione. A Roma, a Gerusalemme, nel ramadan nordafricano, Pacanowski ha costruito il percorso di una ricerca personale: scovare le immagini fotografiche narrativamente più adatte per riprodurre la dimensione collettiva della religiosità nella nostra contemporaneità mediatizzata e globale. Il suo viaggio lo ha portato a contatto con momenti rituali delle tre religioni monoteiste.
Spinto da una curiosità legata più che altro alla manifestazione degli elementi esteriori dell’autorità religiosa – magnificenza per il credente, rischio del kitsch per il non credente – Pacanowski si è lasciato via via re-incantare dagli elementi di tradizione, mistero, fede, che sopravvivono pur nella estrema contemporaneità del rito religioso odierno.
Così Pacanowski ha confermato la particolarità della sua figura artistica. Agisce per istinto e poco per concettualizzazione, pur essendo dotato di un fiuto particolare per la grazia estetica. Epperò agisce lasciandosi trasportare da una tensione quasi epidermica verso gli affreschi, ciò che – per via induttiva – gli consente di fissare attraverso il particolare dell’obiettivo fotografico un messaggio, una visione universale. E così è accaduto anche in questa sfida, praticata in giro per il mondo, con un tema assai complesso e costantemente sottoposto alle sollecitazioni della cronaca anche più aspra e controversa.
Osservando il lavoro della mostra nel suo insieme, accostando uno a uno i pezzi della sua produzione, viene da sé che anche questa volta Pacanowski è riuscito in ciò che s’era prefissato. Ha raccontato per flash, colori, particolari di movimento, dialoghi immaginari tra la folla e le autorità religiose, il carattere fondativo e primordiale dell’elemento che dà titolo alla mostra: all’infuori di me. “All’infuori di me”: ciò che nel Vangelo è la rivendicazione dell’unicità del divino, diventa la connotazione dell’elemento esteriore della religiosità, ovvero ciò che “sta fuori” la fede come esperienza individuale e si fa invece rito comunitario, incontro, esperienza di massa, pronta per essere confezionata e riprodotta sui media globali.
La stessa tecnica di lavoro di Pacanowski, quella complessa e originale sovrapposizione tra il piano di lavoro fotografico e quello propriamente pittorico da lui stesso definita fotosintesi, utilizza l’osservazione fotografica della realtà come traccia per una prima manipolazione del reale – i colori, i contrasti, i contorni – è a suo modo un nuovo approccio alla possibilità di rielaborazione dell’immagine fotografica del rito religioso. Nelle tele, le masse diventano macchie di colore. La liquefazione e ri-solidificazione dell’elemento materico si fa strumento di un viaggio onirico-imagologico nella dimensione fusionale e comunitaria della religione.
Così, All’infuori di me segna un approccio artisticamente originale e creativamente denso al tema della religione come “fatto sociale totale” e come “fatto mediatico globale”.