C’è un contrasto tra l’iconografia della religiosità singolarmente ricca nel nostro paese e il clima culturale che da troppo tempo stiamo vivendo. Quale che sia il destino delle polemiche sulla radice cristiana della nostra cultura, è impossibile negare che le cornici del nostro sguardo, e di noi italiani in particolare, sono intimamente impregnate di sentimento religioso. Certo, non si può dimenticare che molte di queste percezioni si confondono con il senso estetico, perché poche dimensioni più della religione hanno attratto una così imponente attenzione degli artisti di ogni disciplina, dagli architetti ai musicisti, dai pittori agli scultori. C’è una prima affinità elettiva da registrare in proposito, e riguarda i manufatti e le opere chiamate a raccontare con le pietre il senso religioso e la vocazione al bello e al sublime che ha sempre attratto gli uomini. L’Italia delle cattedrali sta lì a raccontarcelo.
È quindi una bella contraddizione del nostro tempo vivere un ambiente di stimolazioni visive così profondamente segnato dal Sacro e, al tempo stesso, vedere scorrere sulla scena stili di vita e progetti di esistenza che sembrano aver rottamato i conti con la fede e con il sentimento religioso. Impossibile non accorgersi di questa dissonanza senza chiamare in causa l’euforia delle promesse del progetto moderno, in forza di cui l’uomo nuovo (ancora una volta) si sarebbe finalmente emancipato da tutti i dogmi della tradizione e dalle credenze infondate. Il paradosso però è che proprio quell’euforico progetto moderno è ormai attraversato da una crisi irreversibile, che ha messo a nudo le promesse mancate della secolarizzazione e della modernità, regalando al nostro tempo sensazioni sempre più pressanti di smarrimento e di precarizzazione della vita. A ben vedere, il modo in cui le certezze del passato hanno dovuto cedere il posto a un clima devastante di incertezza aiuta anche a rimettere in discussione quanto sia stata acritica l’occupazione unilaterale dell’immaginario dei moderni in forza di cui il clima culturale è formattato sulla pubblicità e sulla comunicazione della vita vera, che altro non è che l’hic et nunc dell’uomo sulla terra. Si alimenta la percezione che la nostra è la terra desolata, secondo la bella definizione di Eliot.
Il meccanismo con cui la cultura dominante ha sciolto questa contraddizione è il suggerimento di ricorrere alla religione debole (una delle tante varianti della nostra capacità di definire il nostro tempo con formule elusive). Può essere definita come debole la religione che rinuncia allo spazio pubblico come suo luogo di espressione, compromettendo drasticamente il complesso progetto di coerenza tra orientamenti religiosi e scelta dell’azione. È così che la religione viene fatalmente reclusa nelle catacombe, rinunciando a qualunque dimensione all’infuori di me, e dunque compromettendo la radice essenziale del patto religioso, quella di costruire una coerenza tra la fede e il comportamento.
Nel nostro tempo, l’estroflessione dello spirito religioso è dunque censurata come pressione ideologica e indebita performance sull’altro; ma questa è l’anticamera della sua liquidazione, perché, privata di qualunque viralità e potere di contagio, essa viene amputata di quella dimensione decisiva della vita degli uomini che è dare e lasciare segni, influire sugli altri, con-vivere in società.
Se la religione è privatizzata, come rischiosamente tende ad accettare di essere, scivola nel solipsismo e diventa la variante più aberrante di quello tsunami del tempo moderno che è l’individualismo.
È per questo che le fotosintesi di Andrea Pacanowski rappresentano una sfida per il nostro sentire. Sono una vera e propria provocazione contro il modo in cui ci siamo accasati nella modernità, accontentandoci degli accessori e degli optional. La forza di restituzione di queste immagini riporta le fedi alla loro dimensione costitutiva: forme elementari della vita religiosa (proprio il titolo del fantastico libro di Durkheim di cui quest’anno celebriamo il centenario) e, al tempo stesso, restituzione del simbolismo spirituale alla sua natura di vincolo pubblico.
Re-ligo, appunto, nel significato più profondo di costituzione di società, legame simbolico e, proprio per questo, dunque profondamente scelto dalla persona. Il concetto di socialità, o meglio ancora di reliance (appunto da religare: tenere insieme, legare), è stato riattualizzato da illustri sociologici contemporanei come Edgar Morin e Michel Maffesoli, quale asse portante della struttura antropologica. La “reliance” è il bisogno umano di risposta all’isolamento, la ricerca di legami sociali di comunione umana.
Al centro delle tele di Pacanowski c’è la consapevolezza intellettuale e poetica che la religione è un fatto intimamente sociale e comunicativo. Si può disertare dalla fede, ma non manipolarne identità e carisma. A meno che non si voglia relegarla al mercato dell’usato e degli oggetti del passato. Le tavolozze di Pacanowski sono dunque schierate: attaccano quella convenzione del senso comune in forza di cui la religione dovrebbe essere per i soli, fruita in solitudine come un habitus non più “politicamente corretto”. Diventano dunque una vera e propria manifestazione anche politica. Il lavoro dell’artista parte dalla fotografia quale materia prima, da cui l’autore scava per sottrazioni successive, eliminando i dettagli per concentrarsi sulle forme e, soprattutto sui colori, fino ad arrivare al segno essenziale, pochi tratti estremamente vividi in grado di riassumere la fede in quanto momento collettivo e sociale, ben oltre dunque l’accezione di sentimento privato, fai da te, e dunque celato allo sguardo pubblico.
Del resto già Durkheim aveva sapientemente evidenziato la natura della religione come sistema di azione sociale, attraverso la centralità dei rituali formali e delle cerimonie simboliche nella vita degli individui e delle collettività. Riti e cerimonie religiose rafforzano la solidarietà e la coesione del gruppo, contribuiscono al mantenimento dell’ordine e della stabilità, generano credenze condivise. Riascoltiamo una celebre prefazione di Durkheim: questi fenomeni “sono il germe da cui sono scaturiti tutti, o quasi, gli altri. La religione comprende in sé in via di principio, sebbene in stato ancora embrionale, tutti quegli elementi che separandosi, affermandosi, connettendosi tra loro in mille modi hanno dato origine alle varie manifestazioni della vita collettiva”.
È anche alla luce di questa citazione che le immagini di Pacanowski ci appaiono infatti lontanissime dallo sguardo seriale della televisione e della carta stampata, ma si allontanano al tempo stesso dalla convenzionalità di certe post-produzioni digitali che talvolta vengono troppo sbrigativamente etichettate come “foto d’arte”. Ogni singola fotosintesi rappresenta infatti una sfida narrativa, che sintetizza un segmento del reale in pochi tratti, macchie di colore intenso, pennellate quasi in rilievo, forme dai contorni incerti, come specchiati nell’acqua calma di un limpidissimo stagno.
E’ evidente che dietro questi lavori c’è un faticoso processo di ricerca artistica e di inedita sperimentazione sulle tecniche e sui materiali, per cui ogni immagine non è soltanto il segno di un punto di vista su una realtà necessariamente trasfigurata dall’intervento pittorico, ma è anche un tratto distintivo della sensibilità e della personalità dell’autore, che si ritrova in tutte le sue opere fino a diventare la sua stessa firma.